Nell'aprile del 1935, il quotidiano presso cui lavoravo mi inviò a
Stresa per seguire gli sviluppi del congresso Anglo‐Franco‐Italiano: quelli erano
gli anni in cui la Germania di Hitler riteneva legittimo espandersi per
garantire ad ogni tedesco il giusto lebensraum, lo spazio vitale: i
tedeschi, è noto, sono sempre stati convinti di necessitare di uno
spazio maggiore rispetto altri popoli.
Avevo ben capito che tale Congresso aveva lo scopo di formare un fronte
antigermanico che si opponesse alle dichiarate aspirazioni di Hitler e
scongiurasse il rischio di una nuova Guerra Mondiale; d'altro canto, negli
ambienti diplomatici si supponeva che Mussolini lo avesse fortemente voluto per
rinvigorire la propria immagine di Statista agli occhi della scettica Europa che
continuava a giudicarlo come un pittoresco guitto autoritario in costante
agitazione sulla scena politica internazionale.
Feci il viaggio da Milano a Stresa in compagnia di Piero Rovelli, un
collega più anziano ed esperto di me, che avrebbe dovuto seguire gli aspetti
strettamente politici della vicenda: analisi degli equilibri, articoli di fondo,
opinioni tese a formare un’opinione nei lettori.
Rovelli era un cronista ed un analista politico eccezionale e ogni sua
parola pesava come un macigno, presso l'opinione pubblica.
A me toccava la parte più frivola e meno prestigiosa: quella che il
Direttore fingeva tuttavia di tenere in forte considerazione e che chiamava,
non senza sussiego, cronaca di
costume: nella sostanza avrei dovuto scrivere brevi articoli sulle
toilettes delle consorti degli ambasciatori, sui menù dei ricevimenti, sui
concerti che si tenevano in concomitanza dell'evento; senza, ovviamente,
trascurare i pettegolezzi, le gaffes e così via.
Ma forse andava bene così: in fondo io non riuscivo a comprendere le
logiche contorte che sottostavano ai comportamenti di chi deteneva il potere.
Ero un semplice, che osservava gli avvenimenti; talvolta elaborando
opinioni personalissime, a volte strampalate, spesso incomprensibili a chi mi
stava intorno; certo non ero un interprete degli eventi come Rovelli: ero più
che altro un guardone della Storia
che osservava ad occhi spalancati il baratro nel quale stavamo sprofondando; da
quegli occhi spalancati le parole mi fluivano nella penna e, da essa, negli
articoli che scrivevo.
"Ben venga - mi dissi - questo lavoro da ficcanaso
superficiale: mi distrarrà dalla cupezza incombente sull'Europa".
Viaggiammo per quasi tre ore su un treno semivuoto, freddo; i sedili erano estremamente
inadatti a un lungo viaggio: di legno lucido senza rivestimento.
Fumavamo una sigaretta dietro l'altra, guardando con espressione allucinata,
il paesaggio ancora invernale che si srotolava oltre i finestrini appannati dal
nostro respiro. A ogni scossone che i binari imponevano ai vagoni nel loro
corso irregolare, le valigie dondolavano pericolosamente nella retina sopra le
nostre teste.
Rovelli era un uomo ruvido, di poche parole con il volto scavato e
l'espressione sempre ostile. Parlava con frasi breve e secche, senza divagare.
Non interloquiva mai con me; era impossibile fare conversazione, se non una
fatta di poche battute asciutte: lui parlava, e io mi limitavo a insinuarmi nei
silenzi, pochi e brevi, che intercalavano le sue riflessioni a alta voce, senza
peraltro riuscire ad ottenere la sua approvazione con le mie ovvie affermazioni.
Poi prendeva all'improvviso il suo taccuino e annotava pensieri e domande che
sottolineava più volte, senza più ascoltarmi e senza concludere la
conversazione.
I suoi occhi grigi erano privi di espressione, e quando mi fissava in
silenzio avevo la netta sensazione che mi stesse guardando in trasparenza. La
sua personalità enigmatica mi affascinava e metteva in soggezione.
Era opinione di entrambi che questo incontro fra potenze non avrebbe
condotto a nessuna soluzione e concordavo con lui che fosse imminente un nuovo
conflitto.
Non esprimevamo mai opinioni su Mussolini: sapevo che Rovelli ne era
infatuato, mentre io ero distaccato e prudente, come nei confronti di tutto ciò di cui mi
occupavo.
Arrivammo a Stresa che il sole stava già calando dietro alle montagne e
lunghe ombre gettavano la cittadina nell'oscurità; dal Verbano saliva una
nebbia che recava con sé tutto il freddo e l'umido di quella pigra primavera.
Mi accesi una Nazionale dal pessimo aroma e mi guardai intorno alla ricerca
di un veicolo che potesse portarmi alla pensione dove avrei alloggiato per le
cinque notti successive. Si avvicinò un ometto smilzo e rinsecchito, vestito in
modo estremamente modesto; gli abiti sdruciti emanavano un odore di alcool
unito a sudore, faticavo a stargli vicino resistendo alla tentazione di
mettermi un fazzoletto davanti alla bocca e al naso; non era esattamente quello
che cercavo.
L’ometto, reggendo il cappello fra le mani e biasciando poche parole brevi, mi spiegò
che avrebbe potuto darci un passaggio in qualsiasi posto ad un prezzo
ragionevole.
Feci un cenno a Rovelli e salimmo su una Renault nera che, contrariamente
all'autista, era tirata a lucido; dopo un breve e tortuoso
tragitto che ci portò lontano dai grandi alberghi sul lungolago, la macchina si
fermò davanti alla Pensione La Rocca, un lugubre edificio squadrato di pietra
grigia, con le imposte appena riverniciate di marrone scuro e un'insegna in
metallo verniciato che sovrastava la pesante porta in noce nero.
Il tetto, spiovente, incombeva su di noi, come del resto il cielo carico di
pioggia.
L'interno era coperto di tappeti. Si respirava polvere ad ogni passo, ma
l'ambiente era caldo e confortevole: una grossa stufa in ceramica, le luci
soffuse di numerose lampade alle pareti ed un gentile suono di pianoforte, che
proveniva da una qualche stanza privata, contrastavano con la facciata.
Mi lasciai andare su una poltrona e accesi l'ennesima sigaretta della
giornata in attesa di potermi sdraiare sul letto e occupare il tempo che mi
separava dalla cena ripassando gli appunti.
Quando il suono del pianoforte cessò, comparve al banco dell'accoglienza
una giovane donna dall'aspetto rarefatto, il cui sguardo miope era protetto da
spesse lenti. Teneva i capelli modestamente raccolti in una crocchia: ciò nondimeno
la sua bellezza fragile traspariva limpida.
Aprì il registro e cercò i nostri nomi.
Trovò subito quello di Rovelli e gli assegnò la stanza numero 7. Ma quando
cercò il mio nome, scosse la testa e si morse un labbro; riprovò senza successo
e, con un sorriso cortese che non servì a mitigare la mia frustrazione, mi
sussurrò con dolcezza:
‐ Mi dispiace, signore, non abbiamo prenotazioni a
vostro nome.
Ricaddi sulla poltrona, con la viva tentazione di mettermi a bestemmiare.
Ma mentre stavo per indulgere ad una piccola crisi di nervi, un uomo nerboruto
e calvo, con due folti baffi bianchi uscì da una porta laterale e spostando ‐ non senza malgarbo ‐ la giovane donna, mi
disse che la camera 4 si era liberata in quanto il tale che l'aveva prenotata
non si era fatto ancora vivo e quindi potevo ritenerla mia.
Mentre mi rallegravo, il gigante si rivolse bruscamente alla ragazza e le
intimò di cancellare la prenotazione di Enrico Zanovini e mi porse la chiave
della stanza, alla quale mancava il pendaglio con il numero.
Non diedi particolare importanza a questo fatto, né all'espressione
beffarda che mutò il volto di Rovelli, quando sentì pronunciare quel nome, né
all'esitazione della ragazza la quale guardò più volte l'omone prima di fare
quello che lui le aveva ordinato: volevo un letto e una vasca piena di acqua
calda e, anche se quella stanza fosse stata di Galeazzo Ciano in persona, per
me non avrebbe fatto differenza.
Salii in camera e dopo poco mi addormentai profondamente, ancora vestito e
con il taccuino fra le mani.
Successivamente il mio sonno si mutò in una sorta di dormiveglia, un
torpore denso e appiccicoso che mescolava immagini sognate al rumore dello
scalpiccio oltre la mia porta, ad un bisbigliare di voci concitate e
indistinguibili unito ad altri rumori indistinti e quasi soffocati.
Finché tre colpi secchi alla porta della mia camera, uniti alla voce di
Rovelli che pronunciava il mio nome in modo perentorio, non mi strapparono
definitivamente a quella piacevole deriva della percezione.
Aprii la porta: il mio collega era sconvolto. Aveva la cravatta allentata e
teneva la mano sulla fronte, con la sigaretta tra le dita.
‐ C'è un cadavere.
- Qui?
‐ Sì, perdio! Nello stanzino delle scope: l'ho
trovato io, cercavo un bagno e mi sono trovato questa bella sorpresa. E sai di
chi si tratta? Di Enrico Zanovini.
‐ Quello della mia stanza?
Rovelli fece un cenno con il capo e mi fissò dritto negli occhi senza aprire
bocca. Feci spallucce.
‐ Beh, ma io che c'entro? Non penseranno mica che io lo
abbia fatto fuori per prendermi la sua stanza?
Rovelli cambiò espressione e per un momento restò in silenzio.
‐ Dimmi un po' ‐ mi disse ‐ sei sempre stato così stupido? Tu sai chi
é, chi era, diamine, Zanovini?
‐ Certo che no: altrimenti non sarei qui, sulla
porta della mia camera a discuterne con te quando vorrei riposarmi!
‐ Zanovini lavorava per l'Ovra. Si occupava di
stampa ostile al regime.
‐ Per l'Ovra? – sibilai una bestemmia e mi sedetti
sul letto, mentre Rovelli faceva, con un passo in avanti entrava nella mia
stanza - Perfetto: significa che siamo nei guai. Come è morto?
‐ Gli hanno infilato un coltello in gola.
Mi diressi verso la porta della camera, mi sporsi in avanti, giusto quel
tanto che bastava per avere la visuale dello sgabuzzino, la cui porta spalancata
mostrava il cadavere dell'uomo, in posizione scomposta.
Mi stupii che nello sgabuzzino non ci fosse la pozza di sangue che mi
aspettavo: il pavimento era pulito, così come i vestiti del cadavere; proprio
quei vestiti avevano qualcosa di strano, qualcosa che non andava.
Ma non riuscivo a capire cosa.
A parte il fatto che fossero puliti, ovviamente.
Mi passai una mano sugli occhi; sbuffai, mentre quella sottile voglia di
bestemmiare stava riaffiorando prepotentemente.
Rientrai in camera, indossai la giacca, cercai nella tasca interna il
pacchetto di sigarette, ne portai una alla bocca. Restai alcuni secondi con lo
zolfanello fra le dita a rimuginare. Poi lo sfregai, e lo avvicinai alla
sigaretta. Cominciai ad aspirare freneticamente, con le mani che tremavano. Mi
rivolsi a Rovelli mentre spegnevo il cerino.
‐ Cosa ci faceva qui? Della stampa, in questa
pensione, siamo solo io e te, credo.
‐ Credi male. Siamo addirittura in quattro: tu,
io, Saladanna e Mastrostefano.
Il nostro dialogo fu interrotto dall'arrivo del gigante calvo, i cui
muscoli tendevano la flanella della camicia amaranto. Si fermò davanti alla
porta della nostra camera e incrociò le braccia sull'ampio petto. Guardò
Rovelli con durezza e parlò sottovoce ma sibilando le parole a denti stretti:
‐ Sentite bene: nessuno sa che quello lì è morto
nella mia pensione. A parte noi tre, chiaro. Io non voglio problemi, capito? Se
la polizia scopre cosa è successo, proprio in questi giorni, io ho finito di
lavorare e buonanotte, vacca di una Eva. Voi lo stavate dicendo proprio ora al
vostro amico: non c'era sangue nel bugigattolo. Significa che non é stato
ucciso lì, no? Qualcuno voleva fare il furbo, porca vacca: lo ha ammazzato da
qualche parte e poi lo ha portato nella mia pensione. E come è stato portato
qui, io lo porto via. Capito, signore?
Guardai Rovelli e, non visto dal gigante calvo, mi toccai la tempia:
quello era pazzo.
Rovelli tuttavia sembrava prenderlo sul serio: lo guardava fissamente, con
gli occhi stretti sbattendo nervosamente le palpebre e sfregandosi i
polpastrelli dell'indice e del pollice della mano destra.
‐ Va bene, fate come volete. Non ho tanta voglia
di subire un'indagine. Basta che non ci tiriate in mezzo a questa follia: io
non ho responsabilità su questo luogo, affari vostri. Piuttosto, sapreste
consigliarmi un posto dove mangiare un boccone caldo? Oggi abbiamo mangiato
solo panini.
‐ C'è l'osteria della Marta, giù per questo
vicolo, poco prima del lungolago. Vi tratterà bene, ditele che alloggiate qui
da me.
Rovelli annuì e mi diede appuntamento per le otto; avevo ancora due ore per
me. Prima che l'energumeno se ne andasse, Rovelli gli disse, con l'usuale tono
secco, di ricordarsi di portargli degli asciugamani puliti, perché la camera
sette ne era priva e prima di coricarsi intendeva farsi la doccia. Quell'altro
alzò un braccio e non capii se stesse scusandosi o semplicemente intendesse
mostrare di aver capito.
§
L'Osteria della Marta era piena di giornalisti: evidentemente non eravamo
gli unici a cui era stata consigliata. Fra le tante cose che detestavo del mio
lavoro, la convivenza forzata con i colleghi era la meno sopportabile.
Anche quella volta fu uguale. Al tavolo, oltre Rovelli e me, si aggiunsero
Galimberti, Viviani e Costa.
Fumo, brusio e un unico argomento: il lavoro; e per una mezza tacca del
giornalismo come ero io, era un vero supplizio trovarmi in mezzo a tutti quei
primattori che mi si rivolgevano con il fare di chi te la vuole contare giusta.
Fortunatamente lo stufato d'asino arrivò presto: era morbido e pepato, e
fece tacere tutti. A metà della cena, quando il pane nero era ormai finito,
Galimberti se ne uscì con la notizia del secolo.
La diede a mezza voce, senza smettere di guardare nel suo piatto; la diede
come se fosse l'informazione più banale del mondo, pronunciando le parole in
modo frettoloso e quasi distratto, con la voce secca e impersonale che gli era
propria:
‐ Avete sentito? Hanno rinvenuto il cadavere di
Zanovini.
Rovelli si rabbuiò e mi lanciò una rapida occhiata:
‐ Dove? ‐ chiese con un tono ancora più brusco del
solito. Le guance e gli occhi erano talmente infossati che indovinavo la forma
del suo teschio.
‐ Lungo la ferrovia, poco prima della stazione di
Stresa. Era riverso nelle foglie, con la gola aperta in due. Lo hanno trovato un'ora
fa e adesso la Polizia é sul luogo del ritrovamento.
‐ Come fai a saperlo?
‐ Ho anche io i miei informatori, Rovelli. La
polizia sta indagando, sembra in modo molto silenzioso. Un omicidio di un
giornalista è quanto di più distante dai desideri di Mussolini, soprattutto
adesso, qui.
Intervenne Costa, che aveva bevuto già parecchio, e ciò amplificava il lato
querulo del suo carattere. Si lisciò il ciuffo nero e sogghignò:
‐ Va beh, signori, facciamo un brindisi ad un
ficcanaso in meno. La sanno tutti che Zanovini lavorava per l'Ovra. Più di una
volta me lo sono ritrovato fra i piedi.
Galimberti non replicò, abbassò lo sguardo e riprese a mangiare e sul volto
gli si disegnò un'espressione sarcastica, mentre Rovelli continuava a seguirlo
con lo sguardo; le guance sempre più scavate e gli occhi talmente infossati
nelle orbite da farli sembrare due fessure.
Così, i commenti si smorzarono rapidamente e tutti finirono la propria cena
più o meno in silenzio, facendo sporadici commenti sul vino, sugli articoli che
avrebbero dovuto scrivere il giorno successivo, sul Congresso e tutto il resto.
A fine cena, nessuno si alzò: tutti restammo al tavolo a fumare senza proferire
parola, con lo sguardo perso nel vuoto; qualcuno con la mano nella tasca dei
pantaloni, altri rigirandosi il bicchiere vuoto fra le mani.
Intorno a noi si muovevano lentamente e in modo placido le vite degli altri
clienti che ignari dei pensieri che si agitavano in noi.
§
La mattina seguente mi alzai presto e feci colazione in solitudine. La
presenza di Rovelli mi trasmetteva inquietudine e i misteriosi fatti del giorno
prima, nella loro totale incoerenza temporale, mi turbavano.
Dovevo prendere il battello per Isola Bella: volevo farmi accreditare senza
ulteriori inconvenienti e dare un'occhiata alla Sala della Musica, l’ambiente
deputato ai lavori del Congresso.
Fu così che mi ritrovai accanto Galimberti, il quale aveva le medesime
intenzioni. Fumava già a quell'ora, reggendo fra le dita giallastre di nicotina
una sigaretta che si era arrotolato da solo.
Scrutava il lago, immobile.
Quando mi vide si portò una mano alla falda del cappello e increspò le
labbra; mi allineai a lui e osservai le tre isole che spuntavano dalla leggera
foschia diradata dal sole crescente.
- Galimberti, ieri sera ad un certo punto ti sei obbligato a tacere.
‐ Cosa vuoi dire?
‐ Voglio dire che sai più di quello che hai
raccontato.
Scrollò le spalle e sorrise amaro.
‐ Ti manda Rovelli, per caso?
‐ Senti un po': Rovelli mi mette paura,
ultimamente. Non mi manda nessuno. Ma non sono stupido: ieri sera ti ho visto.
Quando Costa ha detto quella cosa di Zanovini tu hai preferito tacere. Zanovini
non lavorava per l'Ovra, vero?
‐ Sì e no. Era prezzolato dal regime, ma da quello
che so faceva il doppio gioco e passava informazioni ai dissidenti esuli a
Parigi e Londra.
- Ma così si sarà fatto nemici su tutti i fronti.
Galimberti alzò le spalle.
‐ Lo hanno ucciso per questa ragione, quindi?
‐ Diciamo che il suo gioco era rischioso. Comunque
non so chi lo abbia fatto fuori. Quello di cui sono certo è che non lo hanno
ucciso dove lo hanno ritrovato. Ero lì, con gli agenti. Non c'era una goccia di
sangue e la ferita, un buco nella parte destra della gola, dal basso verso
l'alto, era tonda e ampia come un dito.
Fui tentato di dirgli che sapevo dove lo avevano accoppato. Tuttavia
l'immaginazione mi fece un brutto scherzo: vidi il volto di Galimberti mutarsi
in quello di Rovelli, e quell'espressione dura e ostile mi indusse a tacere.
Il battello arrivò e cambiammo discorso. Lo spettacolo del lago, delle
isole e del litorale di Stresa era talmente bello che quasi ci distrasse.
Forse, più semplicemente, non volevamo più pensare a quell'omicidio. Prima
di scendere, tuttavia, mentre il battello procedeva alle manovre di attracco,
riuscii a chiedere a Galimberti:
- Com'erano i vestiti di Zanovini?
Galimberti sussultò in una risata che diceva tutto:
- Non erano i suoi. Ma credo che questo tu lo sappia già, se mi fai questa
domanda.
Di Zanovini e di quello che era successo, non parlammo più, né quel giorno
né in quelli successivi.
Mussolini, MacDonald e Laval irruppero sulla scena: i lavori del Congresso
assorbivano gran parte del nostro tempo e dei nostri pensieri.
Ma la sera, appena rientravo nella stanza numero quattro, appena mi
scioglievo il nodo della cravatta, mi levavo le scarpe e mi sdraiavo sul letto,
ritornavo immediatamente al giorno del mio arrivo in quell'albergo.
E mi riaffiorava il ricordo di quel trafficare sommesso che aveva
interferito con il mio dormiveglia: una sensazione ricorrente che ridava vita
ai miei interrogativi.
Faticavo ad addormentarmi e accostavo, come quando si prepara il menabò di
un quotidiano, le varie immagini fissate nella memoria dagli eventi avvenuti
due giorni prima. Gli asciugamani, i vestiti, i rumori, l'espressione di
Rovelli. La sceneggiata del proprietario della pensione.
§
Vivemmo quei giorni come deportati di lusso in un luogo incantato:
l'incanto, tuttavia era inficiato dalla perniciosa incombenza della tragedia.
Io la percepivo, ma non era tanto la guerra, la cui presenza si faceva
quotidianamente più corposa alla conclusione di ogni incontro fra diplomatici;
era la morte di quell'uomo, evocata di sfuggita e ignorata da tutti noi, come
se la morte fosse un evento ordinario da considerare al pari di altri eventi.
Ogni tanto, nei sogni, mi compariva all'improvviso la gola di Zanovini,
trapassata da un punteruolo: vedevo i margini della ferita, puliti e slabbrati,
e un buco profondo e infinito che mi attirava come una nera vertigine nei
meandri della sua gola fino a farmi scomparire nel buio di quel delitto.
Una sera notai, una strana ombra sulla mia porta: come avevo fatto a
non accorgermene prima?
Era un annerimento lieve sotto il numero della mia camera. L'ombra, formava
un angolo che assomigliava tanto al numero 7. Entrai, mi richiusi la porta alle
spalle e mi ci appoggiai, con la testa in subbuglio. Uscii dalla stanza e mi
mossi alla mia destra. La camera più vicina era la numero 8. Tornai sui miei
passi, oltrepassai la mia camera e mi fermai davanti alla successiva: la numero
6. La mia camera era la numero 7, ma ad un certo punto il 4 e il 7 erano stati
scambiati.
Mi venne subito l'istinto di dire tutto a Rovelli, ma una forza istintiva
mi bloccò. Rientrai nella mia camera e mi buttai sul letto. Non so quante
nazionali consumai; so solo che dopo due ore il locale era saturo di fumo e il
mio portacenere traboccava di mozziconi schiacciati.
Ma la mia mente era sgombra.
§
Viaggiammo in silenzio, per tutto il tragitto che ci riportava a Milano.
Rovelli era ancor più cupo del solito, e sgarbato. Se doveva rivolgersi a me,
lo faceva senza gentilezza, quasi con dispetto.
Arrivati alla stazione percorremmo la banchina, scivolando lungo il treno
che ancora sbuffava per la lunga corsa. A metà del binario allungai un braccio
e afferrai quello di Rovelli, strattonandolo; si voltò sorpreso, con il volto
livido di ira.
‐ Cosa?
‐ Dì un po', Rovelli: lo avete ucciso voi, vero?
‐ Che diavolo stai dicendo? – sibilò digrignando i
denti.
‐ Sì, Zanovini: c'è il tuo zampino. Tu, tu lavori
per l'Ovra. Hai preso il suo posto.
‐ Bada bene a cosa dici, idiota. Potrebbero
sentirti.
‐ Ascoltami: Zanovini faceva il doppio gioco e tu
avevi il compito di eliminarlo. Così ti sei accordato con il locandiere,
sicuramente un tuo complice, che lo ha sgozzato. Zanovini è morto nella camera
numero 4 a cui è stato cambiato il numero prima del nostro arrivo. E nella tua
camera non c'erano asciugamani perchè erano serviti per pulire il sangue che
era schizzato, o per tamponarlo, non so: quell’energumeno con i baffi non ha
fatto in tempo a liberare la stanza, così ha cambiato i numeri sulle porte. E poi
al tuo arrivo lo avete portato fuori dalla stanza e avete creato quella
messinscena surreale per aggiungere mistero confondendomi le idee o per qualche
altra ragione che ancora non riesco a comprendere. Credo proprio che sia andata
così.
‐ Tu credi? Tu‐credi?
Mi accesi una sigaretta e aspirai piano, fissandolo negli occhi. Senza
paura. Lui scrollò le spalle. E riprese a camminare.
‐ Vai a dirlo alla polizia, allora! – rise
sguaiatamente come non lo avevo mai sentito – Vai, vai. Ti ascolteranno
volentieri. E mi raccomando, porta loro tutte le prove che hai raccolto.
La sua risata si sperse nell'aria tiepida della primavera milanese.
Finii di fumare la sigaretta, osservando lo stanco viavai di chi partiva o
arrivava. Rovelli si allontanava veloce, inghiottito in quel brulicare. E con
lui tutte le mie certezze.